Non credete a chi dubita: le proteste hanno ancora forza
Le dimostrazioni di protesta raramente cambiano il corso della politica nell’immediato, ma sono essenziali per costruire il senso di collettività ed una resistenza che duri.
Articolo di Jan Werner-Muller per il Guardian
Le opinioni sulle proteste di questi mesi oscillano tra due estremi: da un lato gli ottimisti che guardano con entusiasmo alla insperata, grande, partecipazione, tirando fuori una ricerca famosa secondo la quale se anche solo il 3,5% della popolazione si mobilita in manifestazioni di protesta non violente può determinare un cambio di regime politico. Dall’altro lato i pessimisti secondo cui queste proteste sono superficiali e più utili per far acquisire visibilità a vari soggetti piuttosto che a generare un autentico cambiamento. Entrambe le posizioni sono semplicistiche: è vero le proteste non generano quasi mai un cambiamento di rotta immediato, tuttavia esse sono indispensabili per farsi coraggio e creare movimenti forti sul lungo termine.
Inizialmente gli osservatori si sono affrettati a definire la resistenza “cringe” , inutile e iperpoliticizzata ; in apparenza il vento era cambiato e dava un segnale lampante: Trump aveva un chiaro e largo mandato popolare, nonostante, in realtà, avesse vinto per pochi voti;
d’altro canto i Democratici si lasciavano travolgere dalla raffica degli ordini esecutivi di Trump, che erano più che altro memo per i sottoposti, piuttosto che provvedimenti legislativi veri e propri, questa scarica di memo oltraggiosi contribuiva, però, a dare l’impressione di un potere trumpiano irresistibile.
Sappiamo, tramite il Crowd Counting Consortium , un progetto che vede gemellate le università di Harvard e quella del Connetcticut, che questo sentimento di tracollo e sconfitta è più delle elite, che non della base : nelle prime settimane del Trump 2.0 ci sono state più proteste che durante lo stesso periodo della prima amministrazione Trump . Quello che mancava era un grande evento che attirasse l’attenzione, la manifestazione tenutasi a Washington, con i suoi oltre 100.000 partecipanti ha sanato questa mancanza.
L’entusiasmo per una così grande partecipazione, grande e diversificata, ha resuscitato l’entusiasmo anche per quel “numero magico” dello studio di Erica Chenoweth e Maria Stephan in base al quale una partecipazione a manifestazioni non violente del 3,5% di popolazione permetterebbe di cambiare il corso delle cose.
Il tre e mezzo per cento di popolazione significa che 11 milioni di persone dovrebbero scendere in strada, se consideriamo che la Marcia delle donne, evento considerato di successo, vede la partecipazione di circa 4 milioni di persone e che la prima Giornata della Terra, un evento storico negli anni ‘70 tenutosi in una unica giornata, portò in piazza “solo” 20 milioni di persone, si comprende la difficoltà di raggiungere questi numeri.
La stessa Chenoweth avverte, d’altronde, che quel numero è solo indicativo non è certo una ferrea legge o un numero da raggiungere obbligatoriamente.
C’è da considerare, poi, che molti movimenti, anche numericamente meno imponenti, hanno comunque ottenuto successo, per non dire del fatto che quella fatidica soglia può essere meglio inquadrata come “una tendenza storica” e venne misurata in un periodo in cui nessuno era ancora consapevole della sua validità, mentre adesso che si è consapevoli di questa soglia ci si potrebbe mobilitare proprio per raggiungerla,e, al contrario, chi detiene il potere potrebbe muoversi proprio per impedire, ad ogni costo, che chi si oppone e protesta la raggiunga.
In ogni caso, protesta e resistenza non sono la stessa cosa: la prima, per definizione, accetta le autorità esistenti e chiede il cambiamento; la resistenza, invece, non riconosce necessariamente la legittimità dei poteri costituiti – ed era proprio a quest’ultima che Chenoweth e Stephan stavano guardando.
Le proteste, raramente, portano ad un cambiamento immediato; come spiega lo scrittore ed attivista LA Kauffman : l’unico caso in cui è avvenuto è stato…senza che si riempissero le piazze, quando nel 1941 il leader per i diritti civili Philip Randolph minacciò, per ottenere la fine delle discriminazioni razziali nell’industria bellica e neell’esercito, di dare inizio ad una protesta su larga scale, dopo che una marcia si tenne a Washington, Roosvelt intervenne subito con un ordine esecutivo che segnava la fine delle discriminazioni nel settore militare.
Tuttavia, un cambiamento politico immediato non è l’unico parametro di successo. Soprattutto alla luce della posizione disfattista delle élite all’inizio di quest’anno, le persone che escono allo scoperto e si riconoscono l’un l’altro possono essere un grande stimolo per il morale. Ciò che così spesso viene liquidato come performativo – musica, tamburi, persone che sfilano con cartelli fatti a mano per farsi fotografare da altri – non è una questione di narcisismo collettivo; piuttosto, come è è stato riconosciuto da molti pensatori moderni, a cominciare da Rousseau, costituisce una parte importante nella costruzione della comunità. I festival, politicamente ispirati e stimolanti, non sono uno spettacolo di contorno, frivolo ma consentono ai cittadini di riconoscersi l’un l’altro, di ritrovarsi, di riconoscersi nei sentimenti degli altri (molti ribollono di rabbia!) e di riconoscere il loro impegno.
https://www.theguardian.com/commentisfree/2025/apr/22/protest-trump-resistance-power?CMP=Share_AndroidApp_Other
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