Categoria: news USA

  • Da Loveconomics buone idee per un mondo migliore

    Da Loveconomics buone idee per un mondo migliore

    Could deglobalisation be a good thing?

    I dazi colpiscono duro, ma possono farci intravedere un mondo migliore che non si basi sulla globalizzazione neoliberista

    Traduzione del pezzo di Laura Basu su Substack

    qui puoi leggere il pezzo in inglese https://laurabasu.substack.com/p/could-deglobalisation-be-a-good-thing?utm_source=substack&utm_medium=email&utm_content=sharesu substack

    I dazi di Trump sembra abbiano piantato l’ultimo chiodo sulla bara della globalizzazione neoliberista,

    Meglio nota come Washington Consensus. Sin dal 1980 questo regime economico ha spinto per le privatizzazioni, riduzione della spesa sociale, annientamento dei diritti lavorativi e dei lavoratori, dell’ ambiente spingendo sul così detto “libero mercato” (la libertà, poi, è sempre stata libertà per i giocatori più potenti di fare ciò che volevano)

    Certamente il modello di deglobalizzazione che Trump persegue non è pensato per portarci verso un mondo più giusto, un pianeta più sano, pace e gioia universale; ma, come fa notare Grace Blakeley, difendere lo status quo non è una soluzione.

    La globalizzazione neoliberista ha fatto arricchire le corporate, mentre ha comportato sofferenze per tutti gli altri, a cominciare dalla classe lavoratrice del mondo ricco, ma pure del Sud Globale. 

    Questo ordine mondiale è stato, in effetti, l’equivalente di un nuovo modello di imperialismo, con le grandi compagnie occidentali che hanno estratto valore dal resto del mondo. 

    Trump, ad esempio, ha passato la maggior parte del suo inizio mandato a lagnarsi del NAFTA, definendolo il peggiore accordo mai stipulato dagli USA, certo dalla sua prospettiva di stato del ricco nord del mondo, invece dall’ altra prospettiva, sin dalla sua entrata in vigore, il NAFTA ha visto un aumento salariale in Messico del 40%.

    Nel frattempo nuovi potenti attori si affacciano sulla scena degli accordi di ” libero scambio” e degli attuali investimenti: Cina, EU e ovviamente gli USA. Tutti questi attori adesso si scontrano su un nuovo terreno di battaglia: i minerali “critici”; risorse chiave come nickel, rame, litio, cobalto, che servono per le tecnologie ad energia rinnovabile; risorse minerarie che fanno funzionare le nostre turbine eoliche e le nostre macchine elettriche ed i cui giacimenti sono per lo più in Africa, Asia ed America Latina. Molti sostenitori della giustizia climatica fanno notare che questo altro non è che un nuovo tipo di colonialismo: un “colonialismo verde

    Come non considerare, poi, sempre a proposito di globalizzazione neoliberista ed estrazione di valore i vari enti che hanno rafforzato questo sistema economico: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione per il commercio internazionale sono detestati in giro per mezzo mondo : le politiche di “aggiustamento strutturale” che essi hanno imposto ai paesi in via di sviluppo hanno causato, come dimostrato più volte, un significativo aumento dell’ ineguaglianza economica, aumento del tasso di suicidi, riduzione dei diritti umani, inclusi più alti livelli dell’ uso della tortura e di omicidi arbitrari. Come se non bastasse, poi, le politiche economiche imposte da questi enti hanno comportato, anche, il blocco nelle assunzioni di milioni di infermieri, insegnanti ed altri lavoratori essenziali, minando profondamente la salute, l’ educazione e l’eguaglianza di genere . Non è certo un granché lo status quo.

    Siamo, dunque, bloccati tra l’ incudine ed il martello? Il tentativo di Trump di mantenere l’egemonia USA invertendo la rotta sulla globalizzazione non è certo una cosa per cui fare festa, ma il sistema neoliberista, la globalizzazione neoliberista ha prodotto i vari Trump in giro per il mondo. Fortunatamente non dobbiamo scegliere tra la padella e la brace.

    LA VIA FELICE ALLA DEGLOBALIZZAZIONE

    Quando ero una studentessa ed una teenager, tra la fine del 1990 e gli inizi del 2000 scoprii, oltre ad Urban Outfitters e alle piastre per capelli, pure il movimento globale per la giustizia che chiedeva, a gran voce, la fine della globalizzazione liberista battendosi perché si potesse realizzare una economia che fosse democratica e che rispettasse le peculiarità, le autonomie nazionali. All’epoca il movimento zapatista aveva coniato uno slogan famoso, per descrivere ciò che era il loro programma : “Un mondo in cui convivono molti mondi” , un sistema economico non gerarchico al posto del sistema neoliberista gerarchico che veniva imposto a tutti noi.

    Walden Bello faceva parte di quel movimento. Bello è un accademico filippino, ex parlamentare filippino, co fondatore dell’istituto politico Focus on the Global South che ha immaginato una deglobalizzazione incentrata sui bisogni del Sud del Mondo, una visione in cui molto spazio è dedicato alla democrazia in campo economico, alla tutela ambientale e alla giustizia sociale. Nel 2008 ha pubblicato un libro, proprio su questo tema. Bello auspicava economie locali vivaci, sosteneva l’uso degli strumenti di politica commerciale ed industriale, inclusi dazi, sussidi e quote per proteggere i mercati locali ed impedire che fossero inghiottiti dalle multinazionali; nel suo pensiero avevano posto anche le ridistribuzioni dei terreni agricoli e le risorse locali. Nonostante quel che può far pensare l’espressione “dazi” Bello non era un isolazionista, ma piuttosto si batteva perché ci fosse una relazione sana tra locale e globale. Ad ispirare Bello furono le idee dello storico dell’economia Karl Polayni secondo cui piuttosto che diventare tutti servi sotto il giogo dell’economia, avremmo dovuto inglobare l’azione economica dentro il contesto sociale, in modo tale che l’economia servisse a soddisfare i bisogni delle comunità, a tal fine si sarebbero dovute creare forme miste di proprietà in cui potessero coesistere economie cooperative, private e statali, ma di certo non multinazionali.

    Un punto cruciale di questa visione è il suo essere consapevolmente ecologica dando priorità ad una tecnologia che tenga conto dell’ambiente in cui si sviluppa, una “tecnologia ambientale” dunque; inoltre si allontana dall’ossessione della crescita ad ogni costo privilegiando, invece, la qualità della vita nelle comunità.

    Questa idea di decrescita sta acquistando oggi popolarità, basti pensare al libro di Jason Hickel Meno è meglio!” . Ma come si sarebbe realizzato il governo di questa economia della decrescita? Secondo Bello per prima cosa si sarebbero dovute eliminare quelle organizzazioni come l’odiato FMI, la Banca Mondiale ed il WTO per far spazio ad organismi locali il cui compito dovrebbe essere di promuovere la cooperazione e non la dominazione e l’estrazione di valore.

    Nel discorso di Bello viene posto l’accento proprio sul concetto di “democrazia genuina” che, per definizione include anche una economia democratica. Ciò significa che spetta alle persone decidere quali industrie sviluppare e quali no piuttosto che lasciare queste decisioni a tecnocrati o a multinazionali i cui obiettivi principali non sono, certo, il benessere delle persone o la salute della Terra. Anche le istituzioni in questa visione hanno un compito collettivo facendo si che la società civile, sempre, possa monitorare gli apparati statali e le scelte fatte dai privati.
    Un principio importante, sottolineato da Bello, è quello della “sussidarietà” un concetto quanto semplice quanto efficace nel rendere i processi decisionali quanto più vicini alle persone ed ai territori: le decisioni, le scelte politiche con la sussidarietà sono infatti prese di scala in scala, dall’unità politico-amministrativa più semplice che opera nei territori, questo processo favorisce una democrazia più diretta rispetto a decisioni prese da un potere distante che impone alle persone, da lontano, le sue scelte.

    UN ALTRO MONDO è POSSIBILE

    Quello di Bello non è l’unica visione di un mondo che rifiuti sia la globalizzazione imposta dalle multinazionali, sia i goffi tentativi di Trump di rinverdire l’imperialismo statunitense: migliaia di idee interessanti ci aspettano là fuori, dai parlamenti mondiali, al confederalismo democratico, passando per il bioregionalismo fino alla soppressione dell’entità Stato . E’ ora di ricominciare a parlarne per riaccendere la lotta del movimento per la giustizia globale, al grido di : un altro mondo è possibile.

    Leggi il pezzo su Loveconomics

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  • Le proteste hanno ancora forza

    Le proteste hanno ancora forza

    Non credete a chi dubita: le proteste hanno ancora forza

    Le dimostrazioni di protesta raramente cambiano il corso della politica nell’immediato, ma sono essenziali per costruire il senso di collettività ed una resistenza che duri.

    Articolo di Jan Werner-Muller per il Guardian

    Le opinioni sulle proteste di questi mesi oscillano tra due estremi: da un lato gli ottimisti che guardano con entusiasmo alla insperata, grande, partecipazione, tirando fuori una ricerca famosa secondo la quale se anche solo il 3,5% della popolazione si mobilita in manifestazioni di protesta non violente può determinare un cambio di regime politico. Dall’altro lato i pessimisti secondo cui queste proteste sono superficiali e più utili per far acquisire visibilità a vari soggetti piuttosto che a generare un autentico cambiamento. Entrambe le posizioni sono semplicistiche: è vero le proteste non generano quasi mai un cambiamento di rotta immediato, tuttavia esse sono indispensabili per farsi coraggio e creare movimenti forti sul lungo termine.

    Inizialmente gli osservatori si sono affrettati a definire la resistenza “cringe” , inutile e iperpoliticizzata ; in apparenza il vento era cambiato e dava un segnale lampante: Trump aveva un chiaro e largo mandato popolare, nonostante, in realtà, avesse vinto per pochi voti;

    d’altro canto i Democratici si lasciavano travolgere dalla raffica degli ordini esecutivi di Trump, che erano più che altro memo per i sottoposti, piuttosto che provvedimenti legislativi veri e propri, questa scarica di memo oltraggiosi contribuiva, però, a dare l’impressione di un potere trumpiano irresistibile.

    Sappiamo, tramite il Crowd Counting Consortium , un progetto che vede gemellate le università di Harvard e quella del Connetcticut, che questo sentimento di tracollo e sconfitta è più delle elite, che non della base : nelle prime settimane del Trump 2.0 ci sono state più proteste che durante lo stesso periodo della prima amministrazione Trump . Quello che mancava era un grande evento che attirasse l’attenzione, la manifestazione tenutasi a Washington, con i suoi oltre 100.000 partecipanti ha sanato questa mancanza.

    L’entusiasmo per una così grande partecipazione, grande e diversificata, ha resuscitato l’entusiasmo anche per quel “numero magico” dello studio di Erica Chenoweth e Maria Stephan in base al quale una partecipazione a manifestazioni non violente del 3,5% di popolazione permetterebbe di cambiare il corso delle cose.

    Il tre e mezzo per cento di popolazione significa che 11 milioni di persone dovrebbero scendere in strada, se consideriamo che la Marcia delle donne, evento considerato di successo, vede la partecipazione di circa 4 milioni di persone e che la prima Giornata della Terra, un evento storico negli anni ‘70 tenutosi in una unica giornata, portò in piazza “solo” 20 milioni di persone, si comprende la difficoltà di raggiungere questi numeri.

    La stessa Chenoweth avverte, d’altronde, che quel numero è solo indicativo non è certo una ferrea legge o un numero da raggiungere obbligatoriamente.

    C’è da considerare, poi, che molti movimenti, anche numericamente meno imponenti, hanno comunque ottenuto successo, per non dire del fatto che quella fatidica soglia può essere meglio inquadrata come “una tendenza storica” e venne misurata in un periodo in cui nessuno era ancora consapevole della sua validità, mentre adesso che si è consapevoli di questa soglia ci si potrebbe mobilitare proprio per raggiungerla,e, al contrario, chi detiene il potere potrebbe muoversi proprio per impedire, ad ogni costo, che chi si oppone e protesta la raggiunga.

    In ogni caso, protesta e resistenza non sono la stessa cosa: la prima, per definizione, accetta le autorità esistenti e chiede il cambiamento; la resistenza, invece, non riconosce necessariamente la legittimità dei poteri costituiti – ed era proprio a quest’ultima che Chenoweth e Stephan stavano guardando.

    Le proteste, raramente, portano ad un cambiamento immediato; come spiega lo scrittore ed attivista LA Kauffman : l’unico caso in cui è avvenuto è stato…senza che si riempissero le piazze, quando nel 1941 il leader per i diritti civili Philip Randolph minacciò, per ottenere la fine delle discriminazioni razziali nell’industria bellica e neell’esercito, di dare inizio ad una protesta su larga scale, dopo che una marcia si tenne a Washington, Roosvelt intervenne subito con un ordine esecutivo che segnava la fine delle discriminazioni nel settore militare.

    Tuttavia, un cambiamento politico immediato non è l’unico parametro di successo. Soprattutto alla luce della posizione disfattista delle élite all’inizio di quest’anno, le persone che escono allo scoperto e si riconoscono l’un l’altro possono essere un grande stimolo per il morale. Ciò che così spesso viene liquidato come performativo – musica, tamburi, persone che sfilano con cartelli fatti a mano per farsi fotografare da altri – non è una questione di narcisismo collettivo; piuttosto, come è è stato riconosciuto da molti pensatori moderni, a cominciare da Rousseau, costituisce una parte importante nella costruzione della comunità. I festival, politicamente ispirati e stimolanti, non sono uno spettacolo di contorno, frivolo ma consentono ai cittadini di riconoscersi l’un l’altro, di ritrovarsi, di riconoscersi nei sentimenti degli altri (molti ribollono di rabbia!) e di riconoscere il loro impegno.

    https://www.theguardian.com/commentisfree/2025/apr/22/protest-trump-resistance-power?CMP=Share_AndroidApp_Other

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