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  • Gaza Flottilla: Il mondo come potrebbe essere

    Photo by Josh Sorenson on Pexels.com
    Articolo di Soumaya Ghannoushi per Middle East Eye
    Leggi l'articolo in inglese

    Nel cuore della notte navi veloci israeliane circondano la Madleen. I droni ronzano sopra. Una strana sostanza bianca viene spruzzata sul ponte, quindi, in acque internazionali, forze armate arrembano l’ imbarcazione. Uno ad uno i dodici civili disarmati [volontari provenienti da ogni luogo] dal Brasile fino alla Svezia, vengono catturati e portati via. 

    Non ci sono armi a bordo: solo cibo, medicine e coscienza. 

    La missione della Madleen è semplice, eppure profonda: portare aiuto e solidarietà alla popolazione affamata di Gaza. Nel mezzo dell’ assedio di Gaza il potere della parola, l’ umana decenza vengono silenziate ed anche il mare aperto non è un posto sicuro. La Madleen non è una semplice imbarcazione, è un messaggio scolpito tra le onde. Il suo nome celebra Madleen Kulab, la prima e l’unica donna pescatrice di Gaza. Madleen a tredici anni prende il posto del padre e cresce da sola in un mondo di filo spinato e paura. Divenuta grande crea una sua piccola attività che permette alla sua famiglia ed altri di vivere: noleggia la sua barchetta, dal baldacchino purpureo, per fare tour, costruendo futuro in un luogo in cui la speranza è rara. Una volta ha dichiarato: “Ho coraggio e volontà” . Adesso il suo coraggio va per il mare, insieme al suo nome. 

    Adesso tocca a noi

    La Madleen continua una storia marchiata dalla violenza: già nel 2010 le forze israeliane abbordarono la Mavi Marmara uccisero dieci persone dell’ equipaggio, le altre persone della Flottilla vennero imprigionate, arrestate ed umiliate, navigano ancora. 

    Quelli sulla Madleen, con solo la loro presenza, rendono manifesto che la causa della Palestina non è più una lotta per un territorio, ma è una lotta di coscienza e tocca tutto il mondo 

    [Tra i 12 attivisti] c’è anche Greta Thunberg, inizialmente eroina della difesa ambientale agli occhi dell’ Occidente progressista, adesso svillaneggiata perché ha rifiutato di tacere, dalla tolda della Madleen ha dichiarato: “ Quando i nostri governi, complici, non agiscono, tocca a noi fare ciò che bisogna fare” 

    Descritta come una minaccia dall’ establishment, è stata diffamata, definita come parte della “elite woke” dai media dominanti per essersi schierata al fianco di Gaza; 

    a questo sgradevole e minaccioso coro si è unita perfino una senatrice USA, Lindsay Graham, che l’ ha presa in giro dichiarando: “spero Greta ed i suoi amici sappiano nuotare” cui Greta ha risposto, indomita: “Sappiamo nuotare molto bene

    Nulla ha svelato al mondo la morale israeliana più della reazione contro questa piccola imbarcazione civile, non tanto, colpiscono le minacce, quanto il tono: rabbioso, paranoico, completamente slegato dalla realtà. Accade allora che, veramente, non stiamo più parlando di una causa che coinvolge un territorio, ma di una causa che coinvolge la coscienza stessa del mondo; accade così che [assistiamo] allo spettacolo del ministro della difesa israeliano, Israel Katz, che etichetta Thunberg come “antisemita e propagandista di Hamas” e, dunque, ordina all’ esercito di usare “ogni mezzo” per bloccare la Madleen, l’ esercito contro una barchetta civile, disarmata che porta il nome di una [ragazza] pescatrice; assistiamo ad un video grottesco in cui bambini israeliani minacciano Thunberg: “stiamo venendo a prenderti” ; assistiamo allo spettacolo di israeliani che, invece di dolersi per le morti o pregare per la pace, festeggiano l’inseguimento contro una ragazza senza armi ma armata di una coscienza; c’è perfino l’illusionista-piegatoe-di-cucchiai, Uri Geller che dice di aver inviato la sua protezione “paranormale” alle truppe israeliane, ammonendo Greta di non prendere sottogamba il suo potere mentale! 

    Tutto ciò sarebbe assurdo in qualsiasi periodo, ma adesso è qualcosa di patologico: queste non sono le voci di una democrazia che ha fiducia in sé. Questo sembra il delirio di un occupante israeliano all’ apice della sua follia: armato, rabbioso ed in una spirale di violenza.

    Il silenzio dei paesi Arabi 

    In mezzo a tutto questo rumore si alza, potente, una voce: Gabor Mate 

    ebreo, sopravvissuto all’ Olocausto, esperto di traumi psicologici di fama mondiale, fa arrivare, dalla Polonia, dove si trova in visita al Memoriale Della Resistenza del Ghetto, un messaggio, pacato e fermo nella sua convinzione, per l’ equipaggio della Madleen: “In questo momento voi rappresentate quei combattenti. Siete come loro, una minoranza che ha avuto la forza di sfidare uno degli eserciti più forti al mondo, sostenuto da un micidiale potere.” Mate ha aggiunto: “ voi tenete tra le braccia, insieme con voi, tutta quell’ umanità che ha il cuore aperto, che crede nella giustizia, nella libertà e che vi supporta, spinta dalla profonda ammirazione per il vostro coraggio” 

    Eppure l’ imbarcazione non è partita da porti quali Tangeri, Latakia, o Alessandria; è partita dall’ Italia. Un silenzio schiacciante risuona nei porti Arabi sul Mediterraneo. l’Egitto osserva, dall’ altra parte del mare; vacanzieri salutano la Madleen al suo passaggio con video e auguri per Eid e finisce qui. Gaza appare più importante al cuore di una ragazza svedese che non a quello dei suoi vicini. L’ Egitto naviga lungo il Passaggio di Rafah, sorvegliandolo con le sue navi militari mentre pochi metri più in là i palestinesi muoiono di fame. La Palestina non è certo in cima ai pensieri dei governanti, in particolare se sono despoti; la causa palestinese è la causa di chi invoca libertà, di chi ha una coscienza, di chi non si inchina al silenzio, alla dittatura e nemmeno alla disperazione.

    La Madleen non è un miracolo, è un modello. È un sussurro che dice all’ umanità: guarda cosa potresti fare se solo osassi. Cosa accadrebbe se non fosse una sola barchetta, ma in migliaia salpassero da tutti i porti del Mediterraneo? Cosa accadrebbe se pescatori, naviganti, studenti e genitori tutti insieme si alzassero in piedi dicendo: non nel nostro nome, non sotto il nostro sguardo? Cosa accadrebbe se il mare divenisse un corridoio per le nostre coscienze?  

    Inazione globale 

    Ricordate Dunkirk, 1940: navi civili attraversano il Canale della Manica per salvare i militari Alleati bloccati, nessun ordine, nessun permesso, solo coraggio. La Storia lo ricorda. 

    E se Gaza fosse la nostra Dunkirk? Cosa accadrebbe se, ovunque, le persone rifiutassero di restare immobili mentre un intero popolo è affamato, macellato, cancellato? 

    Ma ricordiamo anche questo: Sabato saranno 58 anni da che una nave di intelligence USA, la Liberty venne attaccata in acque internazionali da jets e navi torpedo israeliane, vennero uccise 34 persone dell’ equipaggio e 171 rimasero ferite. Nonostante Israele dichiarasse che si trattò di un errore, per molti fu un gesto deliberato. Oggi lo stesso mare diventato rosso del sangue americano accoglie un’ imbarcazione civile disarmata carica di aiuti umanitari e nello stesso modo Israele usa la minaccia della violenza, sempre spalleggiato dagli USA.

    Israele intraprende questa guerra incoraggiato dall’inazione globale. Demolisce il diritto internazionale, brucia i rifugiati nelle tende, affama i bambini, bombarda ospedali, rade al suolo scuole, uccide medici, spara ai bambini che vanno a prendere il pane. E alza le spalle, fiducioso che non accadrà nulla. Ha le bombe statunitensi, il veto statunitense, un’Europa complice, regimi arabi silenziosi e un’élite palestinese svuotata.

    Eppure noi, il popolo, non siamo impotenti, non siamo condannati a vivere in un Mondo in cui il più forte schiaccia il più debole e tutto scivola via, come nulla fosse.

    La scelta morale 

    Ciò che è sul piatto della bilancia, in realtà, non è semplicemente la sopravvivenza di un popolo, ma è la piega stessa che prenderà la civiltà. In che Mondo vogliamo vivere? Un mondo in cui la legge viene svuotata di senso, un genocidio è venduto come “auto difesa” , la verità è solo una seccatura? La Madleen è uno specchio e ci mostra come dovrebbe essere il mondo. La liberazione non è una gentile concessione del potere, ma dipende dall’ iniziativa di chi potere non ne ha. 

    Come ha scritto la politica francese Rima Hassan, a bordo della Madleen: “Quando ci arresteranno, li guarderò come Larbi Ben M’Hidi guardava i colonizzatori della sua terra: calmo, sicuro della liberazione… Pensiamo che stiamo liberando la Palestina. Ma è la Palestina che ci libera“.

    Hassan ha continuato: “Accuso la complicità colonialista occidentale. Accuso la codardia araba. Accuso la corruzione dell’élite palestinese. E sto dalla parte dei resistenti, dei ribelli, dei sognatori, degli indisciplinati, di coloro che rifiutano il disordine di questo mondo“. 

    Ha continuato citando Ben M’Hidi, che una volta disse: “Lanciate la rivoluzione in strada: la gente la raccoglierà”. Oggi la rivoluzione è stata gettato in mare. La raccoglieremo?

    Articolo di Soumaya Ghannoushi leggilo in inglese su
    Middleeasteye

  • Referendum  8 e 9 giugno – 5 SI

    Referendum 8 e 9 giugno – 5 SI

    5 ANNI DI FATICA ED UMILIAZIONI IN MENO si chiede di eliminare una parte dell’articolo 9 della legge 91 del 5 febbraio 1992 sulla cittadinanza; si vuole abbassare da 10 a 5 anni il tempo di residenza legale per diventare cittadini italiani. RESTANO UGUALI GLI ALTRI REQUISITI: conoscere la lingua, essere incensurati, avere un reddito, pagare le tasse

    IL QUORUM: “Perché il referendum sia valido deve essere raggiunto per ogni quesito il quorum di validità e cioè devono partecipare alla votazione la maggioranza degli aventi diritto al voto. Perché la norma oggetto del referendum stesso sia abrogata deve essere raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi.”

    CITTADINANZA : adesso chi è cittadino extra comunitario può richiedere la cittadinanza italiana se risiede in modo CONTINUATIVO in Italia da dieci anni, se conosce la lingua italiana (bisogna dimostrare un titolo di studio che attesti almeno il livello B1), se ha una fonte di reddito, se risulta incensurato, se non ha pendenze in materia tributaria.

    Link Utili:

    https://www.cgil.it/referendum

    https://www.ilfattoquotidiano.it/2025/05/13/referendum-8-9-giugno-guida-quesiti-quorum/7984589/

    https://www.interno.gov.it/it/notizie/referendum-abrogativi-2025-pubblicati-i-fac-simile-schede-voto-dell8-e-9-giugno

    https://www.riformeistituzionali.gov.it/it/il-referendum-abrogativo-art75-della-costituzione/#:~:text=75%20Cost.,atto%20avente%20valore%20di%20legge%22.

    https://ucs.interno.gov.it/ucs/contenuti/Le_statistiche_ufficiali_del_ministero_dell_interno_ed._2018-7358400.htm

  • Da Loveconomics buone idee per un mondo migliore

    Da Loveconomics buone idee per un mondo migliore

    Could deglobalisation be a good thing?

    I dazi colpiscono duro, ma possono farci intravedere un mondo migliore che non si basi sulla globalizzazione neoliberista

    Traduzione del pezzo di Laura Basu su Substack

    qui puoi leggere il pezzo in inglese https://laurabasu.substack.com/p/could-deglobalisation-be-a-good-thing?utm_source=substack&utm_medium=email&utm_content=sharesu substack

    I dazi di Trump sembra abbiano piantato l’ultimo chiodo sulla bara della globalizzazione neoliberista,

    Meglio nota come Washington Consensus. Sin dal 1980 questo regime economico ha spinto per le privatizzazioni, riduzione della spesa sociale, annientamento dei diritti lavorativi e dei lavoratori, dell’ ambiente spingendo sul così detto “libero mercato” (la libertà, poi, è sempre stata libertà per i giocatori più potenti di fare ciò che volevano)

    Certamente il modello di deglobalizzazione che Trump persegue non è pensato per portarci verso un mondo più giusto, un pianeta più sano, pace e gioia universale; ma, come fa notare Grace Blakeley, difendere lo status quo non è una soluzione.

    La globalizzazione neoliberista ha fatto arricchire le corporate, mentre ha comportato sofferenze per tutti gli altri, a cominciare dalla classe lavoratrice del mondo ricco, ma pure del Sud Globale. 

    Questo ordine mondiale è stato, in effetti, l’equivalente di un nuovo modello di imperialismo, con le grandi compagnie occidentali che hanno estratto valore dal resto del mondo. 

    Trump, ad esempio, ha passato la maggior parte del suo inizio mandato a lagnarsi del NAFTA, definendolo il peggiore accordo mai stipulato dagli USA, certo dalla sua prospettiva di stato del ricco nord del mondo, invece dall’ altra prospettiva, sin dalla sua entrata in vigore, il NAFTA ha visto un aumento salariale in Messico del 40%.

    Nel frattempo nuovi potenti attori si affacciano sulla scena degli accordi di ” libero scambio” e degli attuali investimenti: Cina, EU e ovviamente gli USA. Tutti questi attori adesso si scontrano su un nuovo terreno di battaglia: i minerali “critici”; risorse chiave come nickel, rame, litio, cobalto, che servono per le tecnologie ad energia rinnovabile; risorse minerarie che fanno funzionare le nostre turbine eoliche e le nostre macchine elettriche ed i cui giacimenti sono per lo più in Africa, Asia ed America Latina. Molti sostenitori della giustizia climatica fanno notare che questo altro non è che un nuovo tipo di colonialismo: un “colonialismo verde

    Come non considerare, poi, sempre a proposito di globalizzazione neoliberista ed estrazione di valore i vari enti che hanno rafforzato questo sistema economico: Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Organizzazione per il commercio internazionale sono detestati in giro per mezzo mondo : le politiche di “aggiustamento strutturale” che essi hanno imposto ai paesi in via di sviluppo hanno causato, come dimostrato più volte, un significativo aumento dell’ ineguaglianza economica, aumento del tasso di suicidi, riduzione dei diritti umani, inclusi più alti livelli dell’ uso della tortura e di omicidi arbitrari. Come se non bastasse, poi, le politiche economiche imposte da questi enti hanno comportato, anche, il blocco nelle assunzioni di milioni di infermieri, insegnanti ed altri lavoratori essenziali, minando profondamente la salute, l’ educazione e l’eguaglianza di genere . Non è certo un granché lo status quo.

    Siamo, dunque, bloccati tra l’ incudine ed il martello? Il tentativo di Trump di mantenere l’egemonia USA invertendo la rotta sulla globalizzazione non è certo una cosa per cui fare festa, ma il sistema neoliberista, la globalizzazione neoliberista ha prodotto i vari Trump in giro per il mondo. Fortunatamente non dobbiamo scegliere tra la padella e la brace.

    LA VIA FELICE ALLA DEGLOBALIZZAZIONE

    Quando ero una studentessa ed una teenager, tra la fine del 1990 e gli inizi del 2000 scoprii, oltre ad Urban Outfitters e alle piastre per capelli, pure il movimento globale per la giustizia che chiedeva, a gran voce, la fine della globalizzazione liberista battendosi perché si potesse realizzare una economia che fosse democratica e che rispettasse le peculiarità, le autonomie nazionali. All’epoca il movimento zapatista aveva coniato uno slogan famoso, per descrivere ciò che era il loro programma : “Un mondo in cui convivono molti mondi” , un sistema economico non gerarchico al posto del sistema neoliberista gerarchico che veniva imposto a tutti noi.

    Walden Bello faceva parte di quel movimento. Bello è un accademico filippino, ex parlamentare filippino, co fondatore dell’istituto politico Focus on the Global South che ha immaginato una deglobalizzazione incentrata sui bisogni del Sud del Mondo, una visione in cui molto spazio è dedicato alla democrazia in campo economico, alla tutela ambientale e alla giustizia sociale. Nel 2008 ha pubblicato un libro, proprio su questo tema. Bello auspicava economie locali vivaci, sosteneva l’uso degli strumenti di politica commerciale ed industriale, inclusi dazi, sussidi e quote per proteggere i mercati locali ed impedire che fossero inghiottiti dalle multinazionali; nel suo pensiero avevano posto anche le ridistribuzioni dei terreni agricoli e le risorse locali. Nonostante quel che può far pensare l’espressione “dazi” Bello non era un isolazionista, ma piuttosto si batteva perché ci fosse una relazione sana tra locale e globale. Ad ispirare Bello furono le idee dello storico dell’economia Karl Polayni secondo cui piuttosto che diventare tutti servi sotto il giogo dell’economia, avremmo dovuto inglobare l’azione economica dentro il contesto sociale, in modo tale che l’economia servisse a soddisfare i bisogni delle comunità, a tal fine si sarebbero dovute creare forme miste di proprietà in cui potessero coesistere economie cooperative, private e statali, ma di certo non multinazionali.

    Un punto cruciale di questa visione è il suo essere consapevolmente ecologica dando priorità ad una tecnologia che tenga conto dell’ambiente in cui si sviluppa, una “tecnologia ambientale” dunque; inoltre si allontana dall’ossessione della crescita ad ogni costo privilegiando, invece, la qualità della vita nelle comunità.

    Questa idea di decrescita sta acquistando oggi popolarità, basti pensare al libro di Jason Hickel Meno è meglio!” . Ma come si sarebbe realizzato il governo di questa economia della decrescita? Secondo Bello per prima cosa si sarebbero dovute eliminare quelle organizzazioni come l’odiato FMI, la Banca Mondiale ed il WTO per far spazio ad organismi locali il cui compito dovrebbe essere di promuovere la cooperazione e non la dominazione e l’estrazione di valore.

    Nel discorso di Bello viene posto l’accento proprio sul concetto di “democrazia genuina” che, per definizione include anche una economia democratica. Ciò significa che spetta alle persone decidere quali industrie sviluppare e quali no piuttosto che lasciare queste decisioni a tecnocrati o a multinazionali i cui obiettivi principali non sono, certo, il benessere delle persone o la salute della Terra. Anche le istituzioni in questa visione hanno un compito collettivo facendo si che la società civile, sempre, possa monitorare gli apparati statali e le scelte fatte dai privati.
    Un principio importante, sottolineato da Bello, è quello della “sussidarietà” un concetto quanto semplice quanto efficace nel rendere i processi decisionali quanto più vicini alle persone ed ai territori: le decisioni, le scelte politiche con la sussidarietà sono infatti prese di scala in scala, dall’unità politico-amministrativa più semplice che opera nei territori, questo processo favorisce una democrazia più diretta rispetto a decisioni prese da un potere distante che impone alle persone, da lontano, le sue scelte.

    UN ALTRO MONDO è POSSIBILE

    Quello di Bello non è l’unica visione di un mondo che rifiuti sia la globalizzazione imposta dalle multinazionali, sia i goffi tentativi di Trump di rinverdire l’imperialismo statunitense: migliaia di idee interessanti ci aspettano là fuori, dai parlamenti mondiali, al confederalismo democratico, passando per il bioregionalismo fino alla soppressione dell’entità Stato . E’ ora di ricominciare a parlarne per riaccendere la lotta del movimento per la giustizia globale, al grido di : un altro mondo è possibile.

    Leggi il pezzo su Loveconomics

    LINK UTILI

  • Libertà di stampa e pluralismo dell’informazione ad un bivio cruciale in Europa

    Libertà di stampa e pluralismo dell’informazione ad un bivio cruciale in Europa

    Articolo di Jon Enley per il Guardian

    LINK AL RAPPORTO : https://www.liberties.eu/f/oj-aem

    LINK ALL’EUROPEAN MEDIA FREEDOM ACT IN ITALIANO

    Secondo un rapporto recente il pluralismo nei media Europei sta subendo la stretta mortale dovuta ad una eccessiva concentrazione delle aziende che ne posseggono la proprietà e questo anche in quei paesi che, tradizionalmente, hanno un libero mercato del settore. In base al rapporto la stessa libertà di stampa è in bilico in tutta l’area EU.

    Secondo il rapporto, presentato da Civil Liberties Union for Europe (Liberties) e basato sul lavoro di 43 gruppi ed associazioni di difesa dei diritti umani che lavorano in 21 paesi UE, “la libertà di stampa ed il pluralismo sono sotto attacco in numerosi paesi dell’Unione Europea e in qualche caso è una battaglia per la esistenza stessa di questi diritti

    Stretti tra la poche regole di trasparenza circa le proprietà editoriali, la sempre maggior influenza dei governi sui media pubblici, le minacce dirette ai giornalisti, la libertà di stampa e la pluralità dell’informazione “sono sotto attacco in Europa e combattono in molti casi una battaglia per la sopravvivenza

    Non c’è da meravigliarsi” dice Jonathan Day, redattore capo del report , che continua spiegando:

    “Quei governi che vogliono indebolire la forza delle leggi e le istituzioni democratiche, solitamente per prima cosa cercano di controllare l’informazione”


    Day ricorda come l’European Media Freedom Act, l’atto che dovrebbe tutelare la libertà dell’informazione, “abbia già riscontrato molte resistenze ancora prima di diventare esecutivo; come davvero otterrà applicazione, un successo nella sua applicazione, in alcuni paesi EU, potrà fare la differenza per la libertà dei media

    Il rapporto ha individuato una eccessiva concentrazione di media nelle mani di pochi attori; in particolare in Croazia, Francia, Ungheria, Olanda, Slovenia, Spagna e Svezia; in questi paesi pochi ultra ricchi posseggono molta della informazione. Questa situazione è peggiorata, anche, dalle inadeguate regole relativamente alla trasparenza circa chi possiede, veramente, informazione e media. In base proprio all’EMFA ogni paese EU avrebbe dovuto creare degli archivi accessibili e pubblici cui far riferimento circa i proprietari dei media e delle testate informative, la maggior parte dei paesi è in grave ritardo su questo aspetto; forse i databse saranno pronti per agosto.

    In Francia il rapporto afferma che “la sfida da affrontare per il pluralismo dell’informazione è significativa” evidenziando l’acquisto del gruppo Hachette da parte del miliardario Vincent Balloré: non è certo un caso che in molte delle testate e case editrici del gruppo Hachette si siano insediati direttori benevoli con le opinioni dell’ultra miliardario e conservatore Balloré;

    in Italia, sottolinea il rapporto, è preoccupante che una delle agenzie di stampa di punta, l’AGI, sia stata acquisita dal Gruppo Angelucci, il cui proprietario, Antonio Angelucci, parlamentare di estrema destra della Lega, già possiede numerose testate nazionali, come Il Giornale, Libero, Il Tempo.

    D’altro canto anche in Svezia (Bonnier possiede il 43% della proprietà dei giornali in abbonamento con edizioni quotidiane) e Paesi Bassi si assiste ad una concentrazione della proprietà dei media nelle mani di pochi grandi gruppi (RTL Nederland e Talpa Network possiedono il 75% di tutte le reti televisive, DPG Media possiede grandi fette dell’informazione online e medita di acquisirne ancora di più)

    Preoccupazioni per il pluralismo dell’informazione stanno crescendo anche il Germania, dove la crisi dei lettori dovuta anche alla digitalizzazione, ha imposto alle testate locali e nazionali tagli nel personale delle redazioni che hanno toccato il 62%.

    Il picco della concentrazione di potere nelle mani di pochi si raggiunge, però, in Ungheria dove la Central European Press and Media Foundation (Kesma) fedelissima al Primo Ministro Orban, possiede diverse centinaia di compagnie di media; già nel 2010 gli oligarchi vicini ad Orban hanno fatto man bassa, acquistando organi di informazione che, poi, sono stati “donati” al gruppo KESMA, secondo il rapporto, quindi, KESMA funziona come “un conglomerato di media, centralizzato e pro governo”

    Seguono l’esempio ungherese anche i governi di Bulgaria, Croazia, Grecia, Malta e Spagna : con operazioni opache, come l’acquisto di quote pubblicitarie, i governi cercano di condizionare l’azione della informazione e dei media nazionali.

    Il rapporto afferma che non solo in Ungheria, dove i media di proprietà pubblica sono di fatto “portavoce ed ostaggio del governo” anche in Slovacchia si sta prendendo questa china: una nuova legislazione ha, di fatto, eliminato garanzie per l’indipendenza editoriale; simile situazione in Croazia, Grecia, Bulgaria ed Italia dove i media pubblici subiscono pressioni da parte dei governi e appaiono vulnerabili.

    Sul fronte della sicurezza personale dei giornalisti il report individua una serie di attacchi nel solo 2024: i discorsi d’odio, le aggressioni fisiche, le violenze da parte delle forze dell’ordine sono state registrate in numerosi paesi come Francia; Germania; Ungheria e Spagna; in altrettanti paesi nel mirino finiscono sopratutto le giornaliste.

    Il rapporto individua, anche, una particolare forma di aggressione verso i giornalisti: il così detto SLAPP (strategic litigation against public participation ) cioè le denunce in sede giudiziaria che i giornalisti subiscono e che rappresentano “un potenziale rischio per l’esistenza stessa

    questa particolare forma di minaccia è praticata in dozzine di paesi dell’area EU, esemplare il caso della Slovacchia, dove il Primo Ministro, Robert Fico, ha intentato una causa di questo genere contro un giornalista.

    Sempre in base al rapporto si evidenzia come numerosi funzionari pubblici abbiano ostacolato il lavoro giornalistico sia facendo resistenza passiva sia negando apertamente il diritto ad una informazione libera, esempi di questo tipo ci sono stati anche in Germania; Grecia; Malta; Paesi Bassi e Spagna

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  • Le proteste hanno ancora forza

    Le proteste hanno ancora forza

    Non credete a chi dubita: le proteste hanno ancora forza

    Le dimostrazioni di protesta raramente cambiano il corso della politica nell’immediato, ma sono essenziali per costruire il senso di collettività ed una resistenza che duri.

    Articolo di Jan Werner-Muller per il Guardian

    Le opinioni sulle proteste di questi mesi oscillano tra due estremi: da un lato gli ottimisti che guardano con entusiasmo alla insperata, grande, partecipazione, tirando fuori una ricerca famosa secondo la quale se anche solo il 3,5% della popolazione si mobilita in manifestazioni di protesta non violente può determinare un cambio di regime politico. Dall’altro lato i pessimisti secondo cui queste proteste sono superficiali e più utili per far acquisire visibilità a vari soggetti piuttosto che a generare un autentico cambiamento. Entrambe le posizioni sono semplicistiche: è vero le proteste non generano quasi mai un cambiamento di rotta immediato, tuttavia esse sono indispensabili per farsi coraggio e creare movimenti forti sul lungo termine.

    Inizialmente gli osservatori si sono affrettati a definire la resistenza “cringe” , inutile e iperpoliticizzata ; in apparenza il vento era cambiato e dava un segnale lampante: Trump aveva un chiaro e largo mandato popolare, nonostante, in realtà, avesse vinto per pochi voti;

    d’altro canto i Democratici si lasciavano travolgere dalla raffica degli ordini esecutivi di Trump, che erano più che altro memo per i sottoposti, piuttosto che provvedimenti legislativi veri e propri, questa scarica di memo oltraggiosi contribuiva, però, a dare l’impressione di un potere trumpiano irresistibile.

    Sappiamo, tramite il Crowd Counting Consortium , un progetto che vede gemellate le università di Harvard e quella del Connetcticut, che questo sentimento di tracollo e sconfitta è più delle elite, che non della base : nelle prime settimane del Trump 2.0 ci sono state più proteste che durante lo stesso periodo della prima amministrazione Trump . Quello che mancava era un grande evento che attirasse l’attenzione, la manifestazione tenutasi a Washington, con i suoi oltre 100.000 partecipanti ha sanato questa mancanza.

    L’entusiasmo per una così grande partecipazione, grande e diversificata, ha resuscitato l’entusiasmo anche per quel “numero magico” dello studio di Erica Chenoweth e Maria Stephan in base al quale una partecipazione a manifestazioni non violente del 3,5% di popolazione permetterebbe di cambiare il corso delle cose.

    Il tre e mezzo per cento di popolazione significa che 11 milioni di persone dovrebbero scendere in strada, se consideriamo che la Marcia delle donne, evento considerato di successo, vede la partecipazione di circa 4 milioni di persone e che la prima Giornata della Terra, un evento storico negli anni ‘70 tenutosi in una unica giornata, portò in piazza “solo” 20 milioni di persone, si comprende la difficoltà di raggiungere questi numeri.

    La stessa Chenoweth avverte, d’altronde, che quel numero è solo indicativo non è certo una ferrea legge o un numero da raggiungere obbligatoriamente.

    C’è da considerare, poi, che molti movimenti, anche numericamente meno imponenti, hanno comunque ottenuto successo, per non dire del fatto che quella fatidica soglia può essere meglio inquadrata come “una tendenza storica” e venne misurata in un periodo in cui nessuno era ancora consapevole della sua validità, mentre adesso che si è consapevoli di questa soglia ci si potrebbe mobilitare proprio per raggiungerla,e, al contrario, chi detiene il potere potrebbe muoversi proprio per impedire, ad ogni costo, che chi si oppone e protesta la raggiunga.

    In ogni caso, protesta e resistenza non sono la stessa cosa: la prima, per definizione, accetta le autorità esistenti e chiede il cambiamento; la resistenza, invece, non riconosce necessariamente la legittimità dei poteri costituiti – ed era proprio a quest’ultima che Chenoweth e Stephan stavano guardando.

    Le proteste, raramente, portano ad un cambiamento immediato; come spiega lo scrittore ed attivista LA Kauffman : l’unico caso in cui è avvenuto è stato…senza che si riempissero le piazze, quando nel 1941 il leader per i diritti civili Philip Randolph minacciò, per ottenere la fine delle discriminazioni razziali nell’industria bellica e neell’esercito, di dare inizio ad una protesta su larga scale, dopo che una marcia si tenne a Washington, Roosvelt intervenne subito con un ordine esecutivo che segnava la fine delle discriminazioni nel settore militare.

    Tuttavia, un cambiamento politico immediato non è l’unico parametro di successo. Soprattutto alla luce della posizione disfattista delle élite all’inizio di quest’anno, le persone che escono allo scoperto e si riconoscono l’un l’altro possono essere un grande stimolo per il morale. Ciò che così spesso viene liquidato come performativo – musica, tamburi, persone che sfilano con cartelli fatti a mano per farsi fotografare da altri – non è una questione di narcisismo collettivo; piuttosto, come è è stato riconosciuto da molti pensatori moderni, a cominciare da Rousseau, costituisce una parte importante nella costruzione della comunità. I festival, politicamente ispirati e stimolanti, non sono uno spettacolo di contorno, frivolo ma consentono ai cittadini di riconoscersi l’un l’altro, di ritrovarsi, di riconoscersi nei sentimenti degli altri (molti ribollono di rabbia!) e di riconoscere il loro impegno.

    https://www.theguardian.com/commentisfree/2025/apr/22/protest-trump-resistance-power?CMP=Share_AndroidApp_Other

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